La Mater Salvatoris

Maria arca e trono di Cristo
Storia e interpretazione dell’altare del Collegio Leoniano

di p. Mario Ariosto Lessi, sj
già rettore del Pontificio Collegio Leoniano

Mater SalvatorisIn un precedente numero della nostra rivista è stata data notizia della nuova sistemazione dell’altare e presbiterio della Cappella. Nella medesima occasione è sembrato bene completare la ricerca intorno alla storia dell’altare e del quadro della Mater Salvatoris che lo sovrastava.

Due indicazioni erano comunemente note: la prima che si trattava di un regalo di Leone XIII al Collegio, e che a sua volta l’altare era stato donato a Leone XIII dalla diocesi di Ratisbona, cioè Regensburg nel 1887.

Si è pensato che avrebbe potuto essere gradito conoscere qualche cosa di più sia sulla «storia» di questo altare, sia sulla possibile interpretazione da dare al «segno» che nell’insieme delle raffigurazioni la tela ricamata della pala dell’altare, del gradino e del paliotto, sovrastate dal baldacchino costituivano l’insieme di «addobbo» per un altare portatile che la diocesi tedesca donava al Papa.

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Volutamente si è scelto questo modo di esprimersi. Ciò a cui i donatori tendevano era offrire un degno «addobbo» per un altare che presumibilmente il Papa avrebbe potuto portare con sé nei suoi spostamenti. Di fatto implicitamente oltre all’addobbo essi hanno dovuto provvedere a creare una struttura montatile e smontabile con relativa facilità che sostenesse l’altare portatile vero e proprio, o «pietra sacra» come allora si usava (purtroppo non solo negli altari di legno) e la relativa «pala» con baldacchino.Quando coraggiosamente è stata presa la decisione di dare una sistemazione al presbiterio che interessasse anche il complesso «altare»-«pala», nello smontare, con le dovute cautele i vari elementi è apparso chiaro che i gradini erano un’aggiunta posteriore locale, mentre il sostegno della pietra sacra, tolto l’addobbo, è risultato essere un ingegnoso tavolo pieghevole. Altrettanto pieghevole è stata trovata la struttura che tendeva il baldacchino. Non essendo stato fatto nessun intervento sulla «pala» sistemata attualmente nella cornice di noce chiusa da cristallo, non è possibile dire se all’interno sia stata conservata in parte o in tutto la necessaria struttura pieghevole necessaria a sostenerla.

Nel corso dei lavori è stato osservato tuttavia che lungo i montanti che sorreggono «pala» e cornice, sia in basso che in alto fuoriesce il velluto rosso dotato di asole (come avevano anche il paliotto e il baldacchino) ciò comprova che anch’essa, una volta montata la struttura, veniva applicata e tesa servendosi di ganci esistenti sulla struttura.

Prima di passare alla «storia» dell’opera si pensa utile soffermarsi su una prima considerazione relativa al significato globale del dono della diocesi di Ratisbona al papa Leone XIII. Occasione del dono fu il grande giubileo, nel cinquantesimo anno della Ordinazione sacerdotale di Leone XIII avvenuta in Roma nel 1838. Il giubileo venne preannunciato fin dal gennaio 1885 mediante un appello a tutta l’Italia del p. Gaetano Zocchi S.J. e attuato dal Comitato generale dell’Opera dei Congressi, precorritrice dell’Azione Cattolica in Italia.

Nel 1886 L’Opera dei Congressi nel suo Periodico Mensile aveva proposto un programma di festeggiamenti e al n. 2 era prevista: «Una Esposizione Vaticana di prodotti dell’arte e dell’industria dei cattolici da offrirsi in dono a S. Santità riservando una parte principale agli oggetti relativi al culto» (cf. C. Bonacina, Storia Universale della Chiesa Cattolica durante il pontificato di Leone XIII, Torino-Roma, 1903, p. 1283). L’iniziativa fu estesa non solo ai cattolici italiani ma anche a quelli di altre parti del mondo e ottenne enorme risonanza e successo.

Ritornando al significato globale del dono: un prezioso, e artistico altare portatile, si può subito osservare che esso non rientra solo tra gli «oggetti relativi al culto». Si deve ricordare che allora il papa era dal 20 settembre 1870 «prigioniero» in Vaticano, e Leone XIII dalla sua elezione e incoronazione, che celebrò in Cappella Sistina per paura di disordini in Basilica Vaticana, non usci nemmeno per prendere possesso della Basilica Lateranense.

Un altare portatile maestoso, ma pieghevole e riducibile a due casse, supponeva un muoversi, uno spostarsi, un andare altrove, come i papi suoi predecessori avevano sempre liberamente potuto fare. Il dono in sé assumeva un significato simbolico, un augurio di mobilità, di libertà di movimento intesa verso una presenza in mezzo alle comunità cristiane di altre città, e forse di altre nazioni, almeno per quanto riguardava il culto.

L’altare in se stesso era già un simbolo quanto mai adatto per ricordare il cinquantesimo di una prima Messa e lo ricordò il Commendatore G. Acquaderni, nel presentare al Papa Leone XIII gli omaggi del mondo intero il 31 dicembre 1887 dicendo di essere là a nome di tutti per «porre ai vostri piedi l’Obolo per la S. Messa Giubilare, ed offrirvi l’Altare sopra del quale speriamo vorrete immolare la Vittima della Redenzione comune…» (citato da C. Bonacina, o.c., p. 1290). Tutto farebbe supporre che nella sala di udienza fosse stato eretto un altare, ma il bolognese Acquaderni è ben probabile che alludesse a quello donato da Bologna, non a quello di Regensburg.

Il 20 novembre del 1887 il Regensburger Morgenblat in una corrispondenza da Roma si lamentava della possibilità che il Papa usasse l’altare che gli avrebbe donato la diocesi di Bologna, che era già pronto e arrivato da Roma, mentre quello di Regensburg non era arrivato.

Il 23 novembre una delegazione della diocesi di Regensburg fu ricevuta dal papa, e mediante una fotografia presentò a Leone XIII, l’altare con tutti i suoi arredi (cfr. Oberhirtliches Verordnungs-Blatt fur das Bistum Regensburg, 1887, p. 115; Regensburger Morgenblatt, 1887, 28 novembre).

L’altare di Regensburg fu destinato dal papa alla sala del Concistoro, di fronte al trono papale, in Vaticano. Là il 25 novembre avrebbe dovuto essere ammirato da tutti i cardinali. Purtroppo, benchè arrivato a Roma, non fu possibile metterlo in opera.

L’idea di sistemarlo nella sala del Concistoro è dovuta al fatto che in tale sala si prevedeva di far celebrare al papa la Messa per i numerosi pellegrinaggi previsti per l’anno giubilare.

La celebrazione giubilare vera e propria ebbe luogo in S. Pietro all’altare della confessione. Ma è più che probabile che papa Leone XIII in quell’anno, e in seguito, abbia celebrato all’altare prima di inviarlo al Collegio Leoniano che, tra l’altro, solo nel 1897 veniva inaugurato.

Storia

Quando il 16 gennaio 1887 il vescovo di Regensburg, Mons. Ignazio von Senestréy, inviava la Lettera pastorale per annunciare alla propria diocesi il giubileo sacerdotale di Leone XIII e invitare i fedeli a preparare un generoso «obolo», osserva che «anche altri doni saranno presentati al Papa per il suo giubileo di prima Messa» e che «la diocesi di san Wolfgang… non resterà indietro alle altre diocesi» in quanto: «un regalo proprio della diocesi, e un regalo quanto mai appropriato per un giubileo di prima Messa, è già in preparazione; molte mani sono già all’opera per preparare ciò che è necessario». Di questo regalo la Lettera pastorale dice solo: «Un altare mobile, artisticamente congegnato e addobbato, con tutto ciò che è richiesto per il suo scopo e ornato, sarà il nostro regalo. Senza dubbio il Santo Padre se ne rallegrerà, come il papa Pio IX, di immortale memoria, si rallegrò di quello che noi gli offrimmo nell’anno 1877» (cfr. Oberhirtliches Vero rdnungs-Blatt fur das Bistum Regensburg, 1877, pp. 4-8).

L’idea del dono da fare è senza dubbio da collegare con quello già fatto a Pio IX. Il progetto e disegno originale è di Georg Dengler, vicario della Cattedrale di Regensburg, editore del periodico Kirchenschmuck (Ornato ecclesiastico) che era diffuso non solo in Germania ma anche in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti negli anni tra il 1839 e il 1896.

Nel periodico sono pubblicati dei disegni, evidentemente i primi progetti, e una descrizione che non corrisponde sempre ai disegni, ma all’altare come si andava già fabbricando, dopo ulteriori precisazioni del progetto stesso.

I disegni pubblicati sul periodico ci informano che del dono fatto dalla Diocesi di Regensburg al papa faceva parte anche un tappeto di venti metri quadrati, da porre davanti all’altare portatile. Il tipo di disegno, l’agnello su una fontana cui accedono due cervi a dissetarsi, e le scritte, una su cartiglio dal Salmo 41, e l’altra sui quattro lati della rappresentazione per indicare i donatori e l’occasione del dono, fanno escludere che il tappeto fosse utilizzabile per un altare con gradini per accedervi. E forse per questa ragione che al Leoniano il tappeto non è stato inviato insieme all’altare e agli altri componenti del suo ornato.

Comparando il disegno dell’altare con l’opera finita si notano tre cambiamenti maggiori: il primo riguarda il gradino, il secondo il paliotto, un terzo il baldacchino.

Il primitivo progetto del gradino considerava l’eventualità di un tabernacolo cubico centrale incuneato tra le due parti del gradino. L’ornamento del gradino prevedeva quattro cornici rettangolari, senza disegno nel progetto, circondate da ricamo e da due fiori geometrico-ornamentali tra le due cornici laterali, senza nessuna scritta.

La successiva trasformazione del gradino deve essere partita dalla considerazione che per l’altare papale era per principio da escludere la presenza del tabernacolo. Una volta acquisito il principio il gradino avrebbe potuto essere di un solo elemento, e per esso si è provveduto ad un nuovo progetto da coordinare con quanto già previsto. Se ne prese l’occasione per riportare sul gradino la scritta A SUMMO PONTIFICE LEONE XIII DIOECESIS RATISBONENSIS BENEDICTIONEM PRECATUR, e per illustrare con quattro medaglioni rotondi i santi Vescovi Dionigi Areopagita, Erhard, Emmeram martire, e Wolfgang, dei quali era unita una reliquia in apposita teca sovrastante l’effige.

Nel progetto del paliotto, oltre la scena centrale della Annunciazione, sotto arcatelle di gusto neo-romanico sorrette da colonnine sono raffigurati, da sinistra a destra di chi guarda: S. Gioacchino, S. Pietro, S. Giuseppe e S. Leone. L’opera finita, e già l’articolo di commento nel periodico, mostrano invece, nel medesimo ordine, S. Gioacchino, S. Michele arcangelo, S. Leone e S. Francesco.

La modifica operata sul baldacchino consiste invece in un arricchimento del numero delle figure dei cherubini. Dai dieci previsti si è passati a ventisei in modo che il baldacchino fosse uguale in tutte le sue parti: davanti, dietro e sui due lati. I cinque previsti direttamente sopra la «pala» vennero sostituiti con la figura dell’Agnello e dei quattro simboli degli evangelisti secondo la visione di Ezechiele, e dell’Apocalisse.

La struttura originaria di legno è stata costruita a Regensburg dal signor Kandlbinder. Il tappeto era opera delle signore e signorine della diocesi. La «pala», il ricamo del gradino, il paliotto, i due stemmi laterali e il baldacchino nella parti ricamate sono stati opera di molte ricamatrici dei vari monasteri e conventi: Pielenhofen per parte del paliotto, Niederviehbach e Aiterhofen per i due stemmi laterali, l’unificazione delle varie parti si deve alle Domenicane di S. Croce di Regensburg. Il ricamo base del gradino fu eseguito dalle Suore della Visitazione di Oberonning, e i quattro medaglioni dei patroni di Regensburg dal monastero delle Cistercensi di Waldsassen. L’immagine centrale della Madonna col bambino è stata ricavata da un affresco eseguito da un monaco di Beuron nel monastero Emaus, e ricamata dalle suore del Monastero di Mallesdorf. Alla decorazione della «pala» hanno cooperato per le parti di cornice le Cistercensi di Waldsassen, e per i medaglioni ai quattro angoli, e dei simboli mariani le Cistercensi di Seligenthal presso Landshut, che hanno ricamato anche la Annunciazione del paliotto. Al baldacchino hanno lavorato i conventi delle Suore di Amberg, le Orsoline di Streubing, le Dame inglesi di Deggendorf e le Clarisse di Regensburg. Alle Francescane di Mallersdorf si deve invece la composizione di tutte le parti della «pala» in modo che i vari ricami risultassero connessi negli insiemi che ammiriamo ancora oggi. Il lavoro era già completato ed esposto il 14 ottobre. Da un calcolo fatto nel tempo per il solo lavoro di ricamo se si fossero dovuti dare 3 marchi al giorno ad ogni ricamatrice, dato che in complesso erano state impiegate 16.670 giornate lavorative, la spesa avrebbe raggiunto i 50.000 marchi. A questa cifra va aggiunta la spesa di altri 6.000 marchi per il materiale senza contare il valore di ciò che è stato donato liberamente per l’opera, soprattutto per ciò che è diretto ornamento della immagine della Madonna.

Le opere in metallo provengono tutte da artigiani della Diocesi di Regensburg. I sei candelieri e il crocifisso dalla officina del signor J. Leser di Straubing. Il leggio e le rifiniture in metallo del gradino dalla Ditta del signor J. Gótz di Regensburg (cfr. Kirchenschmuck, n. 19, nuova serie, p. 7) che ha fatto anche i due sostegni del baldacchino, quelli che nella cappella del Leoniano sono stati utilizzati per sostenere la tenda alla porta d’ingresso.

Quando l’opera completata, dal 18 ottobre venne esposta a Regensburg in un locale attiguo alla vecchia cattedrale fu da tutti ammirata. In quel tempo, novantanove anni fa, era certo più evidente l’impressione dell’insieme, la finezza dell’armonia delle tonalità dei colori, la magnificenza e perfezione dei singoli particolari, la minuziosa estensione e finezza della varietà di tecniche del ricamo usate dai vari conventi e monasteri. Ma anche adesso, nonostante sia visibile la prova del tempo in non pochi particolari, resta ammirevole l’opera e soprattutto resta intatto il «discorso simbolico» che l’opera contiene, pur nel distanziamento del vero e proprio altare della «pala». Nella ristrutturazione operata il «paliotto» è stato inglobato in un vero e proprio altare, anche se mobile giuridicamente (lo sarà difficilmente di fatto per il peso). Il «gradino» è stato utilizzato per fare da spalla alla sede presidenziale. Il rapporto dei quattro vescovi patroni di Regensburg con la sede potrà servire a ricordare come la presidenza liturgica in un seminario regionale non è mai staccata da un mandato che proviene da più vescovi. Il «gradino», conservando la sua fisionomia originaria di «luogo» delle reliquie, tolto dall’altare obbedisce alle attuali norme che proibiscono di porre qualsiasi reliquia sopra la mensa dell’altare, ma ordina di includerle nel basamento dell’altare, come è stato fatto nell’inclusione in esso della precedente «pietra sacra» che è sotto la mensa. Ma insieme il gradino completa la decorazione della «pala» nella quale era stato incluso un lato del baldacchino. La eventuale nuova sistemazione di quest’ultimo nella sua vera funzione di copertura sovrastante la mensa dell’altare, non potrà essere attuata se non dopo il necessario restauro e la soluzione di problemi estetici e pratici non irrilevanti.

Interpretazione del «segno»

In primo luogo sembra utile riprendere una certa descrizione del «segno» in se stesso prima di darne una globale lettura interpretativa. Prescindendo dagli elementi puramente decorativi e integrativi, tra i quali i due stemmi, quello di Leone XIII e quello del Vescovo di Regensburg, riprodotti ai fianchi dell’altare che non entrano direttamente nel «segno», si comincerà la descrizione dalla parte più vistosa del complesso, cioè dalla «pala», per passare quindi al gradino e al paliotto.

Al centro della «pala» campeggia la «Mater Salvatoris», con lo sguardo rivolto al Cristo, seduta su un cuscino, che poggia su un bancone incorniciato da un tendaggio artificiosamente aperto sullo sfondo di un cielo stellato, con la mano destra in posizione di «deesis» (= preghiera) verso il Cristo che la Madre sorregge con la sinistra. Il Cristo è raffigurato in piedi, che guarda verso avanti, con la mano destra benedicente, mentre con la sinistra sostiene il simbolo dell’impero: un globo sovrastato dalla croce gemmata. Sopra la testa di Maria la colomba simbolo dello Spirito, con l’aureola tipica delle Persone divine (anche il bambino ce l’ha), che proviene dai «cieli dei cieli» (nimbo raggiante) in posizione epicletica.

La parte più interna della cornice contiene, a partire dalla parte sinistra di chi guarda, l’antifona: BEATA DEI GENETRIX MARIA VIRGO PERPETUA / TEMPLUM DOMINI SACRARIUM / SPIRITUS SANCTI SOLA SINE EXEMPLO PLACUISTI / DOMINO NOSTRO IESU CHRISTO, che si trova ai Vespri del 21 novembre, per la Presentazione della beata Vergine Maria.

La cornice ha, ai quattro angoli, le scene: della Visitazione, in basso a sinistra di chi guarda; della Natività, in basso a destra; della Presentazione al tempio, in alto a destra; e del ritrovamento fra i dottori, in alto a sinistra. I quattro misteri gaudiosi sono completati dalla scena della Annunciazione, con le parole AVE MARIA GRATIA PLENA, che è al centro del paliotto. Il richiamo al rosario mariano non è casuale, ma intenzionale per mostrare la filiale obbedienza ai ripetuti inviti di Leone XIII per propagare la devozione al rosario. Nella stessa linea sono gli altri medaglioni della cornice che illustrano simboli mariani derivanti dalle Litanie lauretanee: Vas insigne devotionis, Rosa mystica, Stella matutina, Turris Davidica, Domus aurea, Ianua coeli.

Sul gradino dell’altare sono rappresentati i quattro santi patroni di Regensburg. Da sinistra a destra di chi guarda: S. Dionigi Areopagita, S. Erhard vescovo, S. Emmeram vescovo e martire, S. Wolfgang vescovo.

Il rapporto di S. Dionigi Areopagita con Regensburg è legato all’esistenza di un antico reliquiario, (la custodia attuale è opera artistica del 1440) nella chiesa di S. Emmeram, dove si troverebbero i resti di questo discepolo di Paolo, primo Vescovo di Atene, martire, divenuto famoso nel Medio Evo sia perchè a lui furono attribuiti degli scritti molto letti e studiati il cui autore è invece un siriaco, forse monaco e poi vescovo nel quinto secolo, sia perchè dal secolo nono Dionigi Areopagita era stato identificato con il primo vescovo di Parigi. Erhard nel quinto secolo sarebbe stato un vescovo missionario che dalle Gallie si sarebbe recato in Baviera dove avrebbe battezzato S. Odilia. Poiché questa al momento del suo battesimo avrebbe ricuperato la vista, il santo viene raffigurato con il libro dei Vangeli e due occhi aperti come propria caratteristica iconografica. È l’abate vescovo più antico della città. Emmeram nel settimo secolo era monaco nei paesi Franchi. A Regensburg diviene abate di un monastero e poi vescovo per la stima del duca bavarese Teodo. Caduto in disgrazia e ingiustamente accusato di aver fatto un affronto a una delle figlie del duca sarebbe stato raggiunto mentre si recava a Roma da uno dei figli di Teodo che gli avrebbe amputato le dita delle mani e dei piedi, dopo averlo disteso su una scala. Da qui la scala che porta con sé. Sulla sua tomba, a Regensburg, sorse un monastero che porta il suo nome, e il culto verso di lui oscurò quello di Erhard.

Tuttavia in seguito la diocesi di Regensburg diviene «diocesi di S. Wolfgang» per la fama di questo monaco di Einsiedeln (Svizzera) che era missionario in Ungheria e nel 973 è chiamato a divenire vescovo di Regensburg. Nella grande stima per la vita monastica ne favori lo sviluppo pur rinunciando alla dignità di abate che gli competeva per tradizione. Come vescovo pur nella profonda coscienza del suo essere pastore, maestro e padre del popolo affidatogli, comprese la necessità di promuovere la nascita di nuove diocesi (Boemia, Praga) che si distaccavano dalla sua per peculiarità e diversità geografiche, linguistiche e culturali di quei popoli. Dalla storia si sa che mori a settanta anni davanti all’altare della chiesa di Pupping, il 31 ottobre 994, ma la leggenda si impadroní presto di lui. In essa si dice che verso la fine della vita avrebbe sentito la vocazione all’eremitismo e si sarebbe ritirato in un bosco dove avrebbe costruito una chiesetta. Quando dei cacciatori lo scoprirono e pregarono di ritornare a Regensburg, egli accondiscese promettendo tendo benedizioni a chi avrebbe visitato la chiesetta. Per questo è rappresentato con una chiesetta in mano. Di fatto esiste un santuario di S. Wolfgang meta, fin dall’alto medioevo, di pellegrini e di grande devozione. In una miniatura dell’Evangelario dell’imperatore Enrico IV risalente a circa il 1100, è rappresentato insieme a S. Dionigi e S. Emmeram.

Sul paliotto sono invece i santi protettori del papa che si chiamava Gioacchino e aveva scelto il nome di Leone. Anche se la scelta del nome non alludeva direttamente a S. Leone Magno, ma era dal cardinal Pecci collegata al predecessore, Leone XII, San Leone papa diveniva suo protettore.

Michele arcangelo fu rappresentato sul paliotto perchè Leone XIII aveva per l’arcangelo una particolare devozione che lo spinse a comporre preghiere da rivolgergli. Una di queste preghiere fu pubblicata nel Rituale Romano all’inizio del terzo capitolo del Rito degli esorcismi e l’altra divenuta ancora più famosa, fu imperata il 23 novembre 1887 «ad tempus», ma di fatto poi perdurò fino al 1965, come preghiera da dire in ginocchio davanti all’altare, dopo la celebrazione della Messa. S. Francesco si aggiunse ancora per ricordare il legame fecondo stabilitosi fra Leone XIII e il Terz’ordine francescano. In questo modo oltre i santi patroni onomastici la Diocesi di Regensburg aveva provvisto a mettere davanti agli occhi del papa, sia all’inizio che alla fine della celebrazione della Messa dei santi cui era particolarmente legato.

Un nesso tra il luogo centrale scelto per la scena dell’Annunciazione nel paliotto, può esservi stato in relazione all’ordine rinnovato da Leone XIII il 6 gennaio 1884 di recitare, nelle messe private, in ginocchio con il popolo, 3 Ave Maria, la Salve Regina e un’orazione a tutti i Santi, che, il 23 novembre 1887 (si potrà notare almeno la coincidenza con il giorno in cui la delegazione di Regensburg presentò al papa l’altare) faceva sostituire con le orazioni Deus, refugium nostrum e S. Michaél Archangele.

Ma anche se i nessi già illustrati possono darci l’idea base che ha guidato la riflessione intorno all’addobbo per l’altare da presentare a Leone XIII, tenendo conto delle devozioni al papa gradite, tuttavia la interpretazione del segno non ne risulta completa. Essa è più ricca e soggiace agli aspetti già notati.

Ci si servirà, per iniziare, di una precisazione desunta da quella fascia del baldacchino che, essendo materialmente unita alla «pala», nel momento in cui questa veniva incorniciata e protetta dal cristallo è stata inclusa e resa quasi parte della «pala» stessa. Si è già fatto notare che la fascia è un elemento che non appariva nel disegno primitivo, dove figuravano cinque cherubini, e che invece attualmente presenta l’Agnello dell’apocalisse (Ap 5,6. 12-14) e i quattro simbolici Esseri Viventi (Ap 4,7-8; Ez 1,10; 10,14) che la tradizione cristiana ha sempre letto e interpretato come il tetraforme Evangelo.

Alla sommità, al centro, dunque è posto l’Agnello immolato, Colui che verrà, e che invita alle proprie nozze, al convito nuziale, Colui che è l’offerta gradita a Dio e che ha fatto di noi, con il suo sacrificio, un regno di sacerdoti.

Intorno a lui, i quattro Esseri Viventi acclamati verso l’Agnello il loro triplice «Santo» e invitanti all’ascolto della parola racchiusa nell’Evangelo, parola a sua volta illuminata dall’Antico Testamento, nel Profeta, come lo indica la tradizione liturgica, e approfondita negli altri scritti neotestamentari, che dalla medesima tradizione sono riassuntivamente detti: Apostolo.

Abbiamo cosí nella fascia più alta una sintesi della celebrazione della Eucarestia: Parola proclamata e Convito dell’Agnello di Dio, in attesa della sua venuta, azione di grazia e lode per l’opera della salvezza.

Dalla fascia superiore conviene, lasciando per il momento il resto della «pala», scendere al «paliotto», e soprattutto alla scena centrale dell’Annunciazione. Ma prima è bene riflettere sull’attuale ambientazione della scena. Essa è posta al centro tra il mondo angelico e la gerarchia, rappresentati da S. Michele e da S. Leone papa, e ad essi fanno corona i «poveri» di Israele dell’Antico e nuovo Popolo di Dio, rappresentati da S. Gioacchino e S. Francesco. La vittoria sui nemici di Dio (S. Michele) e l’arresto della loro azione nefasta (S. Leone) prepara e continua l’opera del Salvatore, le cui vie erano preparate e sono seguite dagli umili (S. Gioacchino e S. Francesco) nella santità che solo la grazia rende possibile.

La scena dell’Annunciazione è «Evangelo», cioè insieme «Parola» ed «Evento». Parola che deve essere accolta, conservata, meditata, tradotta in opera. Evento che trasforma la realtà nel momento in cui il Verbo si fa carne, per opera dello Spirito Santo.

Maria diviene arca di Cristo, il Verbo di Dio prende da Lei un «corpo» per la vita del mondo, anche se il significato completo di quel «corpo» apparirà quando sull’altare della croce l’Agnello sarà immolato e nell’esaltazione gloriosa penetrerà con il proprio «sangue» nel tempio non fatto da mano d’uomo alla presenza del Padre da dove invia lo Spirito e resta per intercedere per noi.

La venuta del Verbo nel seno della Vergine Maria e la sua nascita da Lui si rinnovano mediante la celebrazione eucaristica nel corpo mistico di Cristo. È nella liturgia della parola e nella liturgia eucaristica come unico atto di culto che il Cristo prende dimora in noi e noi in Lui, che noi accogliamo la Parola e offriamo al Padre quella Vittima che si è fatta nostra nella Incarnazione é ci si dona come cibo e bevanda di Vita, per renderci, come già Maria, Chiesa portatrice di sé nella vita del mondo, e gradita offerta al Padre.

Maria è infatti già nell’Annunciazione modello della Chiesa, sia per il suo scrutare le Scritture antiche (nella scena del «paliotto» è rappresentato dietro Maria un leggio per il «Profeta») sia per il suo ascolto (si noti la mossa di Maria verso l’angelo e la scritta sotto la scena), ma lo è anche per la sua accettazione di cooperare con tutta la propria esistenza messa a servizio di Dio. Nella scena Maria appare infine come colei cui è dato di essere rivestita di un lino di un candore lucente, cioè come simbolo della sposa dell’Apocalisse (Ap 19,8) che riassume in sé le «buone opere» dei fedeli, quelle che rendono la vita dei credenti un’offerta gradita a Dio, da unire all’offerta del Cristo.

II rapporto altare-Cristo, essenziale e fondante nella teologia liturgica della chiesa cristiana, è quindi nel caso dell’altare della Cappella del Leoniano illustrato nella scena dell’Annunciazione e di Maria in essa come «trono di Cristo» e simbolo della Chiesa, sposa di Cristo.

Ma anche l’immagine centrale della «pala» ripresenta con altro linguaggio figurativo l’idea di Maria portatrice del Cristo e della Chiesa nascente, in una felice e sobria unione di dottrina e devozione mediata dalla liturgia.

Dottrina in primo luogo nella figura, centrale e relativa al Cristo insieme, nel suo ruolo di madre di Dio e di interceditrice per noi (vedi il gesto di «deesis» cioè di preghiera di intercessione della mano destra), come realtà provenienti da quella pienezza di grazia che lo Spirito, che la sovrasta, ha riversato in lei..

Devozione nei richiami della cornice ai misteri gaudiosi e alle litanie lauretane che, soprattutto nei quattro angoli sono presentati con tenue colore quasi ad invitare la Chiesa alla penetrazione più del senso che delle realtà delle scene.

Liturgia infine nel testo dell’antifona dei Vespri della Presentazione come voce della Chiesa in risposta alle parole di Maria nella Visitazione: «d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata» (Lc 1,48). Si noti che il testo liturgico della cornice parte proprio dalla scena della Visitazione e risponde: «Beata madre di Dio,. Maria sempre Vergine, tempio del Signore, santuario dello Spirito Santo, tu sola fra tutte sei piaciuta al Signore nostro Gesù Cristo».

Mentre nella prima parte l’antifona riprende in ordine di dignità le qualità che fondano la nostra venerazione di Maria, cioè il suo essere Madre di Dio sempre Vergine, nella seconda con gli epiteti «tempio del Signore, santuario dello Spirito Santo» è espresso il rapporto Maria-Chiesa, nella funzione di modello e primizia per poi tornare nella terza alla scelta da parte del Figlio e al suo gradimento per Lei che è a sua volta inizio della gioia di Maria divenuta per noi «porta del cielo», «casa d’oro», «torre di Dàvid», «stella del mattino», «mistica rosa», e «insigne portatrice di spirito di devozione e disponibilità» verso Dio.

A sostegno della «pala» il gradino con quattro insigni figure episcopali: due, S. Dionigi e S. Emmeram, martiri, uno, S. Dionigi Areopagita, tradizionalmente legato all’insegnamento degli apostoli e punto d’incontro tra teologia orientale e teologia occidentale per l’attribuzione di un corpus dottrinale non facile, ma stimolante la riflessione mistico-teologica, due, S. Erhard e S. Wolfgang, evangelizzatori e missionari, tutti dediti alla contemplazione e all’azione pastorale.

Se i seminaristi si abituassero ad approfondire nella preghiera il «segno» esistente nella loro cappella, ne potrebbero ottenere un arricchimento della visione unitaria della loro vita di preghiera, di studio, di apostolato, per il bene della Chiesa al cui servizio si preparano con la dottrina, la liturgia, i pii esercizi e la contemplazione.